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Isterectomia, patologie dell’utero e pregiudizio scientifico

Isterectomia, patologie dell’utero e pregiudizio scientifico

Laparoscopia1 La situazione attuale In tutto il mondo: l’hanno subita negli USA e nel sud Australia 1 donna su 3, dai 60 anni in su: nel Regno Unito, 1 donna su 5, tra quelle di età superiore a 65 anni: in Italia da un indagine caso-controllo, condotta nell’area milanese fin dal 1983, il 12,2% delle donne risultava isterectomizzata, e tra le ultrasessantenni la percentuale cresceva dal 12,8% tra le nate negli anni 1900-09 al 22% tra le nate negli anni 1930-39. Il tasso annuo è anch’esso molto diverso: alla fine degli anni ottanta si andava da 550 casi ogni 100.000 donne per anno negli USA a 348 in Finlandia a 164 in Norvegia. Vi sono opposte linee di tendenza. In calo progressivo, anche se lento, negli USA (da 701/100.000 donne/anno nel 1980 a 550 nel 1988.93 ), ma in aumento in paesi come la Norvegia dove dal 1977-78 al 1988-90 è aumentata del 50% raggiungendo 164 casi per 100.000 donne/anno. In Italia non sono disponibili dati nazionali, ma sembra in aumento, almeno da alcuni rilevamenti regionali. In Veneto le isterectomie sono passate da 5.909 casi nel 1993 a 6.120 nel 1994, 6.326 nel 1995, 6.685 nel 1996: questi dati oltre a dimostrare un trend in aumento ci dicono che, in Veneto, nel corso della sua vita una donna su quattro viene sottoposta ad isterectomia. Questa disparità di incidenze e tendenze indica l’esistenza di criteri più di ordine soggettivo che oggettivo nella definizione delle indicazioni. Anche le indicazioni e controindicazioni per la scelta del tipo di isterectomia (limitata al corpo dell’utero, totale, allargata ai tessuti circostanti, comprendente o meno l’asportazione degli annessi uterini e quindi delle ovaie ), delle vie di accesso (addominale o vaginale ), delle tecniche chirurgiche oggi disponibili (chirurgica tradizionale, laparoscopica, mista) mostrano disparità importanti non solo fra un paese e l’altro, ma anche fra i vari operatori. Negli USA una recente indagine sui criteri di valutazione per la scelta della via di accesso ha spostato le indicazioni a favore della via vaginale rispetto a quella addominale. Dalle indagini epidemiologiche risulta inoltre che l’isterectomia è associata spesso ad ovariectomia senza relazioni significative con lo stato patologico delle ovaie. Eppure il benessere della donna e la sua qualità di vita possono essere diverse se l’intervento è più esteso o più limitato o a seconda delle vie di accesso: la possibilità di conservare il collo dell’uteropuò giovare alla sessualità, l’avere o meno una cicatrice chirurgica visibile può influire sul suo atteggiamento psicologico e sul suo vissuto, il conservare o no le ovaie può significare, nelle donne in età fertile, una improvvisa cessazione dell’attività ormonale con un inizio traumatico ed anticipato dellamenopausa, non sempre ben compensabile con le terapie ormonali sostitutive. L’associazione dell’isterectomia con l’ovariectomia cosiddetta “profilattica” è un tema contraddittorio edaffrontato più su base empirica che scientifica. Dalla letteratura risulta spesso, per esempio, che per quanto l’ovariectomia sia eseguibile senza diversità di difficoltà sia che l’isterectomia venga eseguita per via addominale o per via vaginale, la si esegue molto di più nel primo caso, come se le indicazioni alla prevenzione o la valutazione della situazione delle ovaie potesse variare in relazione alla via di accesso. Alcuni testi di chirurgia per medici ne danno indicazione in relazione con l’età con alcune diversità. proponendola alcuni fin dai 40 anni di età della donna, altri più tardi, ma comunque tutti sono d’accordo a indicarla se la donna è in menopausa. La giustificazione è la prevenzione, in queste donne del carcinoma dell’ovaio, ma i dati epidemiologici portati a supporto di questa tesi sono approssimativi e contraddittori. E’ l’unico caso rimasto in medicina in cui si tolgono organi sani: il tumore maligno dell’ovaio è ancora una delle peggiori eventualità cliniche per la sua aggressività e la prevalenza di stati avanzati al momento della diagnosi, ma oggi comunque la disponibilità di indagini ecografiche indica possibili percorsi di diagnosi precoce; allora perché privare la donna di un organo sano e di un apporto ormonale importante sia prima che dopo la menopausa? Quante ovaie si asportano, con le relative conseguenze, per prevenire pochi tumori? Anche la conservazione del collo dell’utero sano in corso di isterectomia per affezioni ginecologiche benigne ha avuto alterne vicende: la sua quasi sistematica conservazione quando si sono iniziate a eseguire le isterectomie avveniva più per le difficoltà connesse con la sua asportazione che per ragioni oggettive di rispetto per la salute della donna. La sua asportazione prima degli screening citologici per la prevenzione del carcinoma del collo dell’utero poteva avere anche alcuni vantaggi. Il collo dell’utero non è un organo inutile e la sua perdita con le conseguenti alterazioni dell’innervazione circostante può influire negativamente sulle funzioni urinarie ed intestinali e sulla sessualità, ma anche su questo argomento i dati scientifici sono contraddittori. Il collo dell’utero, in line teorica, dovrebbe essere tolto solo in presenza di una sua patologia non altrimenti curabile. Non c’è comunque accordo su queste scelte e pochi sono i dati della letteratura che dimostrano oggettivamente, con studi accurati anche di lungo periodo, quali sono i vantaggi reali o gli svantaggi, in un caso e nell’altro, qual’ è il rapporto costi/benefici di una scelta o dell’altra. L’isterectomia, inoltre non è un intervento privo di complicanze, che possono essere legate all’intervento chirurgico in se stesso (emorragie, infezioni, fistole, disturbi della motilità intestinale e alle vie urinarie, ecc.) e soprattutto dovute alle sequele successive alla perdita dell’utero o di tutto l’apparato genitale interno e possono essere sia di tipo ormonale che fisico, ma soprattutto di ordine psicologico e relazionale. omissis Le prospettive La medicina moderna, basata sull’evidenza, cioè su conoscenze ed esperienze oggettive, verificabili e confrontabili, ci obbliga a valutare efficacia ed appropriatezza degli interventi medici, diagnostici e/o terapeutici, in relazione alle possibilità che offrono di promuovere e/o recuperare il bene salute. Ogni atto chirurgico comporta in sé un rischio per la salute che può essere corso solo per un beneficio maggiore; l’isterectomia, oltre al rischio chirurgico, comporta anche la perdita della capacità riproduttiva e di un organo che ha una grande valenza simbolica nell’identità femminile. L’isterectomia quindi come atto terapeutico è giustificata solo nella misura in cui è l’unico mezzo possibile per impedire o riparare un danno rilevante alla salute e dovrebbe comunque essere limitata all’asportazione della minor parte possibile dell’utero, in relazione al beneficio che si vuole ottenere, privilegiando le vie di accesso meno invasive. Non è facile definire, superando le vecchie concezioni organicistiche, il concetto di salute e di malattia. L’OMS ha definito la salute nel 1947 ad Alma Ata come ” stato di benessere fisico, psichico e relazionale”; Malattia è quindi tutto ciò che compromette questo stato di benessere. Nel nostro specifico quale patologia dell’utero costituisce malattia e necessita quindi di essere prevenuta e curata? e quando non vi è altro strumento terapeutico che quello chirurgico? e quale è l’intervento più appropriato in ciascuna delle molteplici situazioni cliniche che si possono osservare? Da molte indagini risulta che il 10-15% delle isterectomie è eseguito per patologia tumorale benigna,mentre l’85-90% avviene per patologia benigna (principalmente fibroleiomiomi, in parte minore endometriosi, prolassi uterini, metrorragie, o, raramente, per urgenze come emorragie infrenabili o infarcimento uterini post-partum, ecc). I tumori maligni dell’utero e dell’ovaio costituiscono un grave rischio per lo stato di benessere della donna e l’isterectomia, modulata nella sua estensione a seconda dello stadio clinico, rimane ancora il principale presidio terapeutico. Tuttavia la diagnosi precoce di molte neoplasie del collo dell’utero e dell’ovaio comincia ad offrire oggi la possibilità di eseguire nelle forme molto iniziali interventi più limitati, per esempio circoscritti al solo collo dell’utero o al solo ovaio. C’è da dire inoltre che le attività di screening dei tumori del collo dell’utero tramite il Pap-test che permette di diagnosticare le lesioni che precedono i tumori e quindi di rimuoverle con piccoli interventi “radicali rispetto alle lesioni” ma conservativi per quanto riguarda l’utero- hanno oggi ridotto di un terzo i casi di donne affette da tumori invasivi che richiedono l’isterectomia e, tra questi, quelli che richiedono gli interventi più radicali. Anche altre alterazioni dell’utero, come le iperplasie, ritenute a rischio per lo sviluppo di carcinomi, possono oggi essere validamente curate in gran parte con terapia ormonale o con la sola ablazione endometriale. Per quanto riguarda le alterazioni benigne, che costituiscono oggi il motivo di gran lunga prevalente per cui si consiglia l’isterectomia, da tutte le casistiche risulta che le indicazioni più frequenti sono costituite dalla fibromatosi uterina ( 30-35% ), dall’endometriosi ( 20% ), dalla patologia del pavimento pelvico ( 15% ), dal dolore pelvico cronico, iperplasia endometrio, sintomi multipli associati. Nella fibromatosi, in tutte le sue multiformi espressioni, l’ACOG (American College Obstetrics Gyinecology) accetta come indicazioni: – utero di volume superiore a quello di 12 settimane di gestazione o superiore a 280 gr.; – presenza di sintomi ( perdite ematiche, dolori,ecc. ) non controllabili con la terapia medica; – rapida crescita dei fibromi in menopausa. La SIGO (Società Italiana Ginecologia e Ostetricia) sta elaborando le sue linee guida con l’orientamento ad indicare un volume uterino superiore a quello corrispondente a 16 settimane di gestazione. Queste formazioni, allora, quando sono una semplice alterazione anatomica di un organo e quando invece costituiscono malattia o rischio di malattia? Cioè quando incidono o possono incidere sullo stato di benessere fisico, psichico o relazionali della donna ? La risposta a questa domanda è fondamentale per verificare la necessità o meno di una terapia e, in caso di risposta affermativa, quale sia la terapia più adeguata ed efficace. manca una definizione oggettiva dei criteri che possono far includere o meno una fibromatosi tra le malattie; il danno allo stato di benessere della donna deriva più che dal loro volume o dalla loro localizzazione, dalla presenza o meno di sintomo e dalla loro entità, dalle modificazioni che ne possono derivare per la vira sessuale e per la capacità riproduttiva e, non ultimo, dalle influenze sul suo atteggiamento psicologico e sul suo vissuto, in definitiva sulla sua qualità di vita. Esistono peraltro pochi dati in letteratura che abbiano valutato, in base alla situazione clinica ed agli esiti dell’intervento, se questo sia stato realmente efficace ed appropriato, capace cioè di rimuovere i sintomi e migliorare significativamente la qualità della vita, o se vi fossero state altre possibilità. Negli studi prospettici di coorte di Karen Carlson si rileva una riduzione dei sintomi, anche se con alcune differenze, sia con la terapia chirurgica che non, e si conclude che molte donne con fibromi, perdite ematiche, dolore pelvico cronico beneficiano di trattamenti non chirurgici, ma che l’isterectomia rimane una importante alternativa quando i trattamenti conservativi falliscono. In parallelo anche nella ricerca scientifica è mancato un impegno costante per individuare le cause che favoriscono l’insorgenza dei fibromi, dati indispensabili per poterli prevenire e/o curare efficacemente senza ricorrere necessariamente a terapie chirurgiche. Lo scarso impegno nella ricerca di base può essere dovuto al fatto che si tratta di alterazioni benigne, che non sempre costituiscono “malattia” nel senso che abbiamo detto sopra, ma anche al fato che, con una chirurgia così diffusamente applicata e silenziosamente subita dalle donne, spesso senza valutazione del rapporto con il beneficio che si intendeva ottenere, si è in qualche modo by-passato il problema. La ricerca di nuovi percorsi diagnostico-terapeutici di fronte alla diagnosi di fibroma occorre in primo luogo chiedersi, quindi, se occorre solo osservarne il comportamento o se invece è necessaria una terapia. Su questo occorre definire meglio i criteri per una scelta che sia basata su dati oggettivi di un sicuro beneficio per la donna. In attesa di linee guida e definizioni più certe su cui è indispensabile un serio impegno di ricerca, bisogna comunque riferirsi all’antico concetto che la cura serve se vi è un rischio concreto e misurabile di danno alla salute, da prevenire o da rimuovere e che la cura non deve addurre danni peggiori di quelli esistenti. Se la terapia appare necessaria, occorre valutare prima di tutto l’utilità della terapia medica non esistono in questo campo, come ho sopra osservato farmaci capaci di agire sulle cause e risolvere definitivamente il problema, esiste però la possibilità di farmaci che possono rimuovere o ridurre sintomi come le perdite ematiche, che costituiscono causa di anemia e quindi di possibile malattia, o possono ridurre il volume dei fibromi e ridurre anche per questa via disturbi dolorosi o emorragici e recuperare così lo stato di benessere della donna. Se la terapia medica non è sufficiente o se ci si trova nella circostanza (per esempio in previsione di unagravidanza) in cui sia necessario rimuovere i fibromi rimane l’approccio chirurgico. Questo deve in primis tendere a rimuovere i fibromi e non l’utero. Nella pratica clinica, così come si è tramandata fino ad oggi, si è ritenuto in genere che la miomectomia, l’intervento cioè che rimuove i fibromi e conserva l’utero, fosse da eseguire nelle donne molto giovani ed in quelle comunque che esplicitamente desideravano mantenere la possibilità di avere figli. L’intervento di miomectomia può essere più semplice di quello di isterectomia o più complesso, lungo e complicato, soprattutto in caso di miomi multipli, voluminosi, inseriti nello spessore della parete uterina, inoltre conservando l’utero c’è un rischio non trascurabile di comparsa di ulteriori miomi: tutti questi motivi sono stati alla base della scelta fin qui prevalentemente fata di eseguire interventi conservati solo se fosse stato necessario conservare la capacità riproduttiva. Le nuove tecniche chirurgiche, la possibilità, ove necessario, di preparare ed accompagnare l’intervento con terapie mediche capaci di facilitarlo e di prevenire la ricomparsa di miomi, la disponibilità di strumenti diagnostici per un adeguato follow up possono indirizzare la scelta verso interventi conservati, qualunque sia l’età della donna. Le tecniche endoscopiche (laparoscopia e/o isteroscopia) quando indicate sono di notevole vantaggio soprattutto nell’immediato decorso post-operatorio che è sicuramente più breve e meno impegnativo, anche se non è ancora sufficientemente dimostrato il loro vantaggio nelle valutazioni a lungo termine. Un vero consenso informato è essenziale perché la donna possa liberamente decidere tra un intervento conservativo con un certo rischio di recidive e con la necessità di un adeguato follow up ed un intervento demolitore. Nei casi (che dovrebbero essere ormai pochi) in cui si valuti più vantaggioso per la salute della donna l’isterectomia, non pare giustificata l’asportazione delle ovaie e del collo dell’utero se sani. Omissis Indicazioni all’isterectomia per patologie benigne: nuove tendenze Fibroleiomiomi uterini I sintomi clinici che motivano l’intervento sono:
  • Volume
  • Rapida crescita
  • Sanguinamento, che non risponde alla terapia medica o all’ablazione endometriale
  • Dolore che non risponde alla terapia e di sicura causa uterina
  • Volume utero
La soglia comunemente accettata per raccomandare l’isterectomia è un volume come o superiore a 12 settimane di gravidanza, ci si sta orientando su un volume come o superiore a 16 settimane. Le motivazioni addotte sono (ma non vi sono evidenze scientifiche):
  • Evitare potenziali futuri sintomi;
  • Non è documentata la motivazione di un maggior rischio di perditi ematiche;
  • E’ probabilmente rara e non documentata l’ostruzione silente dell’uretere, ma non è comunque documentata la possibilità di conseguenti danni renali.
  • Possibile aumento di rischio chirurgico per volumi maggiori:
  • Può esservi in corso di isterectomia di uteri superiori a 20 settimane un lieve aumento di perdite ematiche ma non è documentata una aumentata necessità di trasfusioni ne una aumenta morbilità.
  • Evitare interferenze con la valutazione clinica degli annessi e ritardare la diagnosi di cancri ovarici o tubarici, non documentata evidenza scientifica.
  • Prevenzione del cancro uterino (rischio di sviluppare un cancro uterino in una donna di 50 anni di circa il 2,4% e dello 0,6% per quello cervicale; probabilità di morte rispettivamente 0,2% e 0,3%)
  • Diagnosi più precoce di leiomiosarcoma (rischio inferiore a 1/1000).
Isterectomia: linee guida Come si è visto, l’isterectomia è un intervento molto diffuso, su cui, però, da anni si è aperta una fase di riflessione critica nello stesso mondo sanitario sia in relazione alle indicazioni che alle tecniche di esecuzione e agli esiti di salute. E’ necessario quindi, elaborare linee – guida in relazione sia alle indicazioni che alle tecniche per l’isterectomia. Tale necessità nasce, in particolare, dai seguenti motivi:
  • I cambiamenti della medicina, della ginecologia e dalla chirurgia ginecologica;
  • Il sempre maggior numero di specialisti che affrontano le tematiche chirurgiche della specialità;
  • L’estensione della medicina basata sull’evidenza scientifica e di conseguenza, la valutazione, su questi criteri, dell’appropriatezza di ogni atto medico;
  • La disparità di incidenza di tale intervento e delle sue indicazioni nei vari paesi e, nell’ambito dello stesso paese nei vari ospedali;
  • La diversa attenzione agli aspetti economici dell’assistenza sanitaria;
  • L’attenzione sempre maggiore alla salute intesa come stati di benessere fisico, psichico e relazionale, e quindi alla qualità della vita, come elemento fondamentale della salute;
  • La necessità di un nuovo rapporto medico-paziente, in cui il paziente diviene attore della decisione e il consenso informato diviene strumento fondamentale di salute.
Inoltre è bene sottolineare che è importante una continua collaborazione tra il mondo medico e le donne tutte, affinché la salute sia sempre il vero e unico obiettivo. Questo deve esprimersi attraverso la realizzazione di nuove dinamiche del rapporto informazione-consenso, che deve guidare il cittadino ad essere il soggetto del percorso sanitario che lo riguarda; ma deve esprimersi anche nella partecipazione alla ricerca per individuare percorsi diagnostico-terapeutici sempre più appropriati, come pure nella collaborazione alla formazione del personale sanitario, affinché acquisisca le conoscenze necessarie per offrire ai cittadini prestazioni sempre più qualificate e la capacità di comunicare con i pazienti in modo da fornire loro le informazioni ed il sostegno necessari perché posano essere i veri protagonisti della promozione e recupero della salute.

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